Se è vero che "Sbagliando si impara" perché fatichiamo ad accettarlo?"
Da sempre raccontiamo e ci diciamo che gli errori fanno parte del gioco. Ma davvero sappiamo abbracciare il loro potere trasformativo?
“Errare humanum est”, “Sbagliando si impara”: frasi comuni quanto banali che, almeno una volta nella vita ci siamo sentiti dire o abbiamo regalato a un nostro interlocutore. Parole che suonano come un mantra e che, per la maggior parte delle volte, hanno la funzione di conforto verbalmente ma che, purtroppo, spesso lasciano il tempo che trovano.
Diciamoci la verità. Tutti sappiamo che sbagliare è qualcosa che capita spesso: un errore di percorso, piccolo o grande che sia, entra a gamba tesa nelle vite di chiunque, ma non per questo chi ci si imbatte perde automaticamente il suo valore o le sue competenze. Ma allora perché facciamo così fatica ad accettare la cultura dell’errore?
Fin dai primi giorni di lezione all’università mi sono sempre chiesta come le persone attorno a me potessero vivere serenamente la propria vita privata fatta di feste, vita da fuorisede, lunghi weekend passati in treno per tornare dai propri genitori e, allo stesso tempo, trovare il tempo per studiare abbastanza bene da mantenere una media invidiabile e navigare dritti verso la famigerata “laurea in corso”.
Io, dal canto mio, avevo creato il mio personale planner di studio: il numero di esami di ogni anno divisi per sessioni d’esame, scandendo perfettamente quando e quanto avrei dovuto studiare per arrivare preparata ottenendo così il risultato perfetto per me. Capii più tardi che, in realtà, il risultato perfetto era per qualcun altro. La mia mente però, in quel momento, era settata su un unico pensiero: l’errore non è ammissibile. Non si poteva pensare di saltare un esame, ritirarsi, provare a diluire il ritmo perché questo avrebbe comportato un fallimento.
Nonostante fossi assolutamente conscia del fatto che i piccoli intoppi e incidenti di percorso fossero assolutamente normali, non riuscivo a perdonarmi nel momento in questi intoppi accadevano a me e, più andavo avanti, più mi accorgevo che erano in molti a pensarla allo stesso modo.
Sfortunatamente, anche entrando nel mondo del lavoro, la sensazione di negazione del fallimento e dell’errore ha continuato a pervadere la mia mente. Ma perché, come racconta anche il Sole 24 Ore con questo articolo, risulta così difficile accettare la possibilità di commettere un errore, se da sempre ci raccontiamo e ci facciamo raccontare che questo è assolutamente normale?
“Sbaglia solo chi fa”
Convivendo con questo invadente obiettivo di perfezionismo ho iniziato a provare a capire come levarmelo dalle spalle: sono arrivata alla conclusione che troppo spesso la nostra società e la cultura del successo ci portano a nascondere o non accettare i nostri errori per via di una presenza ingombrante quanto persistente: la paura del giudizio degli altri.
Non prendiamoci in giro: per quanto vogliamo far credere a noi stessi di essere superiori rispetto a quello che la gente pensa di noi, l’idea che persone più o meno vicine possano pensarci diversi da quello che ci aspettiamo ci logora e ci infastidisce. Lo vediamo tutti i giorni: sui giornali, per strada, sui social, intenti a scegliere la foto e le parole migliori, più adeguate, per evitare la probabile dose di shitstorm quotidiano che il mondo esterno è pronto a buttarci in faccia non appena facciamo un passo falso.
Una dinamica che si accende spessissimo in tutti gli ambiti delle nostre vite: dai voti espressi in stelline dorate e faccine tristi sui quaderni delle elementari fino alla paura dei feedback in età lavorativa, l’idea di sbagliare, di non portare a termine un progetto in maniera perfetta o di sembrare incompetenti, sfaticati, inclini all’errore è un fardello che mina la nostra autostima.
Vero è che oggi, fortunatamente, moltissime aziende si concentrano sul promuovere la cultura dell’errore positiva: manager illuminati che lavorano a un sistema che integra gli aspetti apparentemente negativi degli errori nella cultura aziendale e incoraggia i lavoratori a imparare da essi. A suon di critiche e feedback costruttivi, costruiscono un ambiente safe promuovendo innovazione e creatività.
Nonostante questo, trovo che sia ancora molto difficile per le persone silenziare quella voce nella propria testa che sussurra insistentemente che un errore è inconcepibile, irreparabile e che, nei peggiori dei casi, può portare non solo a una battuta d’arresto lavorativa, ma anche a una vanificazione di tutti gli sforzi e delle competenze raggiunte fino a quel momento. Che sia un bias cognitivo innato o indotto dalle esperienze fatte, la verità è che, per quanto si possa avere paura del giudizio altrui e delle ripercussioni sui nostri fallimenti o presunti tali, il peggior giudice è quello che vive dentro di noi. Anche perché a sbagliare maggiormente solitamente sono le persone che si impegnano e si mettono in gioco per qualcosa in cui credono: ecco che il detto della nonna “Sbaglia solo chi fa” acquisisce il suo vero significato.
Ci sono errori ed errori
L’errore è quindi una possibilità di progresso, e capita a chiunque, anche ai migliori. Tempo fa mi sono imbattuta in un talk di Piero Martin: il fisico sperimentale, durante un TEDx che riprende il suo libro, ha raccontato una cosa che ho trovato estremamente interessante: anche il metodo scientifico mette in conto gli errori e la gran parte dei grandi della scienza sono riusciti a fare quel che hanno fatto proprio grazie a momenti di fallimento. Una questione che può farci tirare un sospiro di sollievo, ma fino a un certo punto.
L’accettare di poter sbagliare è importantissimo, ma non può essere uno scudo protettivo con cui proteggersi e in cui crogiolarsi. Esistono errori ed errori: quelli che possono essere riparati facilmente, senza grosse ripercussioni, e quelli che invece lasciano davvero il segno. In più, all’interno del calderone, si aggiunge ancora una volta la visione degli altri e quella, purtroppo, non la possiamo controllare. Pensate al caos piombato addosso a Chiara Ferragni per via del suo “errore di comunicazione”: è passata da essere una reginetta di stile e padrona di una vita perfetta per i più a personaggio truffaldino con tanto di copertina da pagliaccio.
Sicuramente sbagliare è umano ma, come diceva Sant'Agostino d'Ippona, perseverare è diabolico e rischia di appiccicarci addosso un’etichetta che, sul lungo termine, è difficile da scollare. Fannullone, menefreghista, incompetenza: tutti epiteti facili da ottenere e quasi impossibili da sopprimere sulla nostra fedina personale. Credo quindi che la giusta ricetta sia: sbagliare capita, accettarlo e provare a rimandare è ottimo, crogiolarsi nello “Sbagliando si impara” è controproducente.
Imparare a perdonarsi
Tirando le somme, non potendo controllare il pensiero degli altri - anche se, molto probabilmente, sarebbe il superpotere che vorrei - credo che il modo migliore per provare a lavorare a una cultura dell’errore sia partire da noi stessi. Imparare in primis ad accettare che questi esistono, ma che, come cantava il buon De Gregori, non sono i fallimenti a definirci.
Nel mio percorso per arrivare ad accettarli e farne miei alleati ho provato a mettere in pratica qualche piccolo esercizio:
- Pratica del self-reflection: ho scelto di prendermi un piccolo momento ogni giorno per riflettere sui miei errori, chiedendomi cosa ho imparato e come, in un altro momento, avrei potuto gestire la situazione in modo diverso. Mi sono scritta tutto su un diario e, ogni tanto, me lo rileggo.
- Riframing degli errori: nessuna situazione ha un unico punto di vista. Per questo mi racconto la storia del mio errore senza vederlo come un fallimento, ma ragionando su quali opportunità di crescita mi ha regalato.
- Esposizione graduale agli errori: che sia masochismo o coraggio, spesso provo a inserirmi gradualmente in una situazione fuori dalla mia zona di comfort: una di quelle in cui l’errore è quasi cosa certa. Quando poi va tutto liscio, oltre a tirare un sospiro di sollievo, mi do una bella pacca sulla spalla e sorrido alla mia autostima.
Ultimo, ma non per importanza, è l’esercizio di gentilezza verso se stessi. Considerando che, come già detto, sono tantissime le situazioni in cui gli altri faticano a esserlo, è molto importante regalarci delle carinerie. In fondo siamo tutti esseri umani imperfetti: un errore è molto simile a una cicatrice. Rossa e fastidiosa, ci convince che tutti gli occhi saranno puntati solo su di lei. Col passare del tempo, però guardando quella cicatrice un po’ sbiadita, ci rendiamo conto che non è altro che un segno di ciò che siamo diventati e che ci ha insegnato qualcosa.